Psicologia Psicosintesi

Psicosintesi Oggi incontra Piero Ferrucci – parte 1

È oramai sera, ci troviamo al centro di psicosintesi di Milano in compagnia di Piero Ferrucci. Nel mondo della psicosintesi Piero Ferrucci non ha bisogno di presentazioni. È scrittore, filosofo, psicoterapeuta, docente della Società di Psicosintesi Terapeutica. Per chi ancora non lo conoscesse lo invitiamo a leggere le sue pregevoli opere letterarie.

Intanto colgo l’occasione per ringraziare Piero due volte:  prima di tutto per avermi rilasciato questa intervista per il nostro progetto “Psicosintesi Oggi”;  la seconda ragione ha un valore prettamente personale ed è legata ad un piccolo sogno che accarezzavo quando ero adolescente. Oggi lavoro come psicoterapeuta ma  grazie a questa breve intervista ho potuto per qualche ora vestire i panni di giornalista!

Quello che leggerete nelle prossime righe riguarda temi legati alla psicoterapia, al significato di malattia e di normalità. Piero ci parla di questi argomenti attraverso la qualità della semplicità che lo caratterizza e utilizzando un linguaggio accessibile a tutti.

Detto questo vi auguro una buona lettura!

Ciao Piero. Una domanda che ricorre spesso tra le persone che iniziano un percorso di psicoterapia è se prima o poi torneranno ad essere normali. È questo lo scopo della terapia?

Credo che per loro diventare normali voglia dire nonPiero Ferrucci, psicologo soffrire. La risposta è sì, lo scopo della terapia è quello,  ma non avverrà nella maniera che loro pensano. Non si tratta semplicemente di andare da uno stato di sofferenza a uno di non sofferenza, ma si tratta di cambiare il proprio atteggiamento, di  confrontarsi con delle realtà con cui non ci si voleva confrontare, di esplorare nuovi territori nella loro vita, di rischiare, di crescere. Non si tratta soltanto di tornare alla normalità: indietro non si torna. E se si tornasse sarebbe un male, però questo in un primo momento non mi dilungherei a dirglielo.

Qualcuno potrebbe chiederti qual è il significato di normalità o cosa significa per te normalità?

Mentre nella medicina si può parlare di normalità perché ci sono delle statistiche, per esempio rispetto alla pressione sanguigna, oppure la presenza di vitamina B12 o di Ferro nel sangue, la statura o moltissimi altri dati, sono stati misurati statisticamente, quindi si sa qual è la norma statistica rispetto a questo. Si possono trovare anche degli estremi a questa normalità per i quali una persona è considerata anormale.  Semplicemente anormale vuol dire fuori dalla norma. Da un punto di vista medico questo ha un significato, se tu hai una certa percentuale di glucosio nel sangue oltre i limiti della normalità, forse vuol dire che hai il diabete e che devi fare delle cure, che ci sono dei pericoli etc. Da un punto di vista più propriamente psicologico invece, è molto più difficile definire che cos’è normalità. Ci sono molte più variazioni. Che cosa vuol dire normale, vuol dire essere come tutti gli altri, ma sarebbe una prigione, sarebbe l’ultima cosa che io augurerei ad una persona. In generale il criterio di normalità non è un criterio presente nel mio modo di pensare la terapia.

Tempo fa affermavi che la diagnosi  descrive tutto di una persona eccetto l’essenziale, cioè la sua unicità. Quindi in che termini possiamo parlare di malattia, e se ne possiamo parlare dove comincia la malattia?

Io credo che le categorie diagnostiche siano utili, come del resto la stessa cosa è per leLa diagnosi è valida? Malattia, psicologiatipologie. Sono utili nel farti capire la varietà, tanto dei caratteri delle persone, quanto anche delle loro sofferenze, delle loro patologie, delle loro disfunzioni. Sono cose che bisogna conoscere perché si vede in quante maniere ci sbizzarriamo a funzionare in maniera patologica. Le diagnosi sono importanti e gli studi compiuti in questo campo sono degni del nostro rispetto, devono essere capiti consultandoli. Però c’è il rischio di ridurre una persona ad una diagnosi. Quando la persona viene da me  e chiede una normale visita… c’erano delle categorie diagnostiche preesistenti, quello che io cerco di fare e di adattare quelle caratteristiche della persona uniche e irripetibili con una di queste categorie diagnostiche. Questo può essere utile per capire qualche suo aspetto, può essere utile, ad esempio, per fare una dichiarazione per il lavoro se è in preda ad una grave depressione, ma ad un certo  punto la sua utilità per capire l’unicità di quella persona decade, perché ce la fa vedere uguale a molte altre persone che hanno gli stessi disturbi. Noi dobbiamo essere interessati a ciò che è diverso, è lì che dobbiamo puntare, se appiattiamo l’individuo sulla sua diagnosi annulliamo questa persona. Le diagnosi cosiddette  numeriche del DSM, sono state inventate negli Stati Uniti dove hanno un sistema sanitario specifico basato sulle polizze assicurative. Quindi la diagnosi si rende necessaria per capire se rientra nei piano di rimborso delle polizze, per cui per alcune diagnosi hanno diritto a certe medicine che verranno rimborsate dall’assicurazione, mentre per altre si ha diritto ad un altro tipo di rimborso. Per esempio la nuova diagnosi  nel nuovo DSM 5 di “ansia generalizzata” che colpisce il 3% della popolazione, sembra che faccia guadagnare qualche milione di dollari alle compagnie farmaceutiche. Io ora non sono tanto interessato a vedere queste cose, sono interessato a vedere la persona singola e la sua ansia nell’unicità della sua condizione esistenziale.

Di solito si dice che se fai una buona diagnosi con molte probabilità  avrai una buona prognosi…

La diagnosi per come ne abbiamo parlato finora, usare termini intersoggettivi che definisca la persona, secondo me, è un po’ un imitazione della medicina. Nella medicina la diagnosi è importantissima , è essenziale,  perché naturalmente dalla diagnosi deriva un certo percorso di cure. Nella psicoterapia è molto diverso. Non dobbiamo imitare la medicina. Una diagnosi è essenziale anche qui, ma andrebbe molto più approfondita. Da questo punto di vista io sono molto più esigente, non mi basta una breve formulazione di una categoria. Diagnosi è una parola bellissima e vuol dire “conoscere attraverso, conoscere dentro”. La diagnosi si fa non solo dando un etichetta, ma conoscendo tutti gli aspetti più importanti nella vita di una persona, gli aspetti principali, incluso le sue potenzialità, le sue speranze, i suoi sogni, il suo passato, i suoi lati più segreti, i momenti difficili e via  dicendo, perché solo così si potrà fare un buon lavoro.

Quindi da questo punto di vista la malattia può essere letta come un movimento di liberazione?

Certamente. Molto spesso, non sempre, la malattia è un qualche cosa che spinge. Immaginiamo un bambino che sta crescendo, sta diventando adolescente, sta crescendo molto in fretta, usa ancora i vestiti di quando era bambino. I vestiti un po’ gli tirano, a un certo punto gli tirano parecchio, magari gli fanno male, le scarpe gli fanno molto male. Quello è un segnale che deve cambiare la scarpe ed anche i vestiti. Il disagio psicologico molto spesso, anche se non sempre, è proprio la spinta del nuovo che sta crescendo, che si sta manifestando, la persona deve manifestare qualche cosa di diverso, ma non ne ha il coraggio o le capacità o le possibilità di esprimerlo, ma c’è questa spinta impellente. Questa spinta confrontandosi con l’impossibilità di essere espressa, fa male. Ma semplicemente fare una diagnosi e prescrivere uno psicofarmaco non risolve il problema di capire che cosa sta cercando di emergere nella vita di una persona.

continua….

Psicosintesi Oggi incontra Piero Ferrucci – parte 2

Autore

Gioele D'Ambrosio

Gioele D'Ambrosio

Esperto in disturbi d’ansia e dell’umore, attacchi di panico, dipendenze affettive, supporto alla genitorialità e alla famiglia. Conduce gruppi per la crescita personale, lo sviluppo della consapevolezza e della spontaneità.
Nel suo studio mette in pratica i principi della Psicosintesi Terapeutica che non si limita all’intervento sul sintomo, ma mira all’autorealizzazione dell’individuo.

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