Se seguiamo più o meno assiduamente le notizie che ci riportano i media, ci giunge l’eco di un fenomeno di dimensioni epocali: centinaia di migliaia di persone fuggono dalle loro terre d’origine per giungere in luoghi dove sperano di rifarsi una vita. Quello che accade lo sappiamo tutti, non devo spiegarvelo io. Ci tenevo a sviluppare alcune considerazioni che in questi giorni mi hanno toccato profondamente.
Più vicini che lontani
Vivo a Roma. Probabilmente non molto lontano da dove sono in questo momento, magari nella casa di fronte, ci sono delle persone che stanno parlando in una lingua diversa dalla mia o che magari stanno praticando qualche rito di preghiera a me sconosciuto o ancora che stanno semplicemente cucinando un loro piatto tipico aspettando degli amici per consumarlo insieme. Da qui, dal mio quarto piano, vedo finestre e luci accese, persone che si affaccendano, proprio come me, hanno relazioni proprio come me, hanno usi e costumi lontani dai miei, ma quello che mi appare chiaro è che non sono tanto diversi da me, anzi mi assomigliano in quanto esseri umani.
Un disagio diffuso
Ma se osservo bene dentro di me, la cosa che noto, è che per quanto mi assomigliano mi creano disagio. Non è tanto per la pelle diversa dalla mia e neppure per le loro usanze e costumi non proprio vicini ai miei. Sento che c’è paura dentro di me, ma non c’è solo questo. Se osservo con più attenzione al mio interno, noto che il disagio mi nasce in alcune situazioni specifiche. Per esempio, quando li incontro nei luoghi pubblici, quando siamo compagni di viaggio in un tram, quando i miei occhi incontrano i loro che da poco sono in questa nazione. Mi appare chiaro. Il disagio che sento è legato al fatto che loro pensano che io sia un privilegiato. Mi fermano per strada e mi chiedono l’elemosina, mi chiedono di comprare fazzolettini o calzini, giustificando che per me quei soldi sono niente, mentre per loro sono tanto. Oppure che io ho un lavoro e un automobile e dei vestiti di “marca”. Mi fanno sentire un privilegiato per essere nato qui in Italia piuttosto che in Sudan. Questo mi crea disagio. Per non incontrar il disagio evito di incontrare i lori occhi per strada o di incontrare le loro storie o semplicemente le loro vite. In termini psicologici si chiama “strategia di evitamento del dolore“.
Facendo questo, si innesca un meccanismo senza fine. Io non guardo loro o li scaccio rabbiosamente per evitare di entrare in quella zona di disagio, facendo così li privo dello sguardo, dell’elemento base del riconoscimento tra esseri viventi. Rivolgere lo sguardo a qualcuno è il minimo che si possa fare per farlo sentire uno di noi. Ma gli immigrati non sono “uno di noi”.
Che valore ha la vita di un essere umano?
Dal punto di vista sociologico-filosofico U.Galimberti dice che “Li consideriamo parte di noi solo se ci tornano utili a noi”. Le parole permesso di soggiorno o dichiarazione del datore di lavoro, vogliono significare che loro possono vivere con noi solo se concorrono all’incremento del nostro profitto.
I discorsi pronunciati dai politici sembrano voler dire che a questo mondo si giustifica il diritto alla vita solo se quella vita può dare un contributo economico al prodotto interno lordo del paese. Diversamente, si sentono levare voci che si interrogano su “quanto ci costa” ospitare degli immigrati. Puntualmente qualcuno risponderà: “Restino a casa loro perché qui non li vogliamo, non ci servono!”. Quella vita ha diritto o meno di esistere solo se soddisfa la regola dell’utilità e del profitto?. Il paradosso più incredibile è che oggi le merci hanno più libera circolazione di quanta ne abbiano le persone, la cui vita sembra giustificata solo se una nazione ha posto ancora per ospitarli.
Quando il problema diviene l’altro
Noi psicologi, sappiamo che quando si fanno queste considerazioni, bisogna tener presente e indagare che tipo di immagine abbiamo degli altri. Molti studi ci confermano che, spesso, quel tipo di immagine non è fedele alla realtà. Esiste un meccanismo di difesa che si chiama “proiezione“. La proiezione fa sì che, se abbiamo dei vissuti emotivi inaccettabili, li trasferiamo fuori di noi attribuendoli a qualcun altro. In questo modo, il problema diviene l’altro, è nell’altro. Noi saremo di conseguenza più tranquilli perché siamo quelli a posto, siamo dei “bravi ragazzi”. Quelli “cattivi” sono gli altri. Così facendo, cattiveria e crudeltà non sono cose che appartengono a noi, riguardano esclusivamente gli altri. C.G. Jung ci insegna che questo modo di proteggerci, in realtà, può generare insoddisfazione e senso di incompletezza. Non è una vera soluzione, perché in realtà il problema rimane in noi. Trasponendolo su di un altra persona lo escludiamo dal nostro campo di coscienza. Questo meccanismo opera in tutti noi, appartiene al campo delle relazioni interpersonali, e dalle relazioni con le altre persone si allarga fino alle relazioni internazionali, al rapporto tra Nazioni. Il meccanismo della proiezione, secondo Jung, è stato alla base di vari conflitti tra nazioni, dal momento che “il male” è sempre al di là dei nostri confini all’interno di qualche Nazione straniera.
Verso una società globale
Mi sento di affermare che siamo arrivati ad un punto cruciale della nostra esistenza come individui su questo pianeta. È importante allora chiedersi che fare? Come procedere? Che valore ha per noi la vita umana? Ci stiamo evolvendo verso una società sempre più globale che abbraccia tutto il pianeta che non può non tenere conto dei singoli individui legati a luoghi e culture differenti. Allo stesso tempo quindi c’è da chiedersi in che mondo vogliamo vivere da qui in avanti. Sono domande che già altri prima di me si sono posti. Assagioli riflettendo su questi temi, definiva una necessità urgente quella di intraprendere, dopo una psicosintesi personale, una psicosintesi delle nazioni:
“Ogni psicosintesi presuppone una fase analitica, un esame delle caratteristiche psicologiche e la loro interpretazione dal punto di vista psicodinamico. Ciò è altrettanto vero per le nazioni quanto lo è per gli individui. […]
La psicosintesi di ciascuna nazione deve precedere quella fra le nazioni, come la psicosintesi dell’individuo deve precedere la sua integrazione armonica nei vari gruppi umani; individui disarmonici non possono costituire gruppi armonici, e lo stesso vale per le nazioni; questo non ha bisogno di dimostrazione.
Come per un individuo, così per un popolo si dovrebbe fare un piano d’azione, un programma, per disciplinare e fare buon uso delle energie esistenti e talvolta esuberanti; per sviluppare le qualità deficienti; per integrarle tutte in una sintesi armonica…”. (la-psicosintesi-delle-nazioni-e-dellumanita-di-r-assagioli .doc)
Mi sento di chiudere con una citazione che sento fortemente mia e che spero arrivi a toccare anche voi. Dal Preambolo della Carta della Terra:
“Ci troviamo in un momento critico della storia della Terra, un periodo in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. In un mondo che diventa sempre più interdipendente e vulnerabile, il futuro riserva contemporaneamente grandi pericoli e grandi promesse. Per andare avanti dobbiamo riconoscere che all’interno di una straordinaria diversità di culture e di forme di vita siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune”.
Solo ieri 6000 persone arrivati a Lampedusa. La portata inedita, e per certi aspetti epocale, delle migrazioni nel Mediterraneo non può certo essere trattata con cecità dalle classi dirigenti e con indifferenza dalle opinioni pubbliche.