Frontiere Psicologia

Accompagnamento al trapasso

Mani che si stringono, come accompagnare una persona alla morte
Assistere una persona malata è un lavoro difficile ed impegnativo. Prendersi cura di qualcuno che sta morendo sfiderà le nostre convinzioni più salde, ci metterà di fronte ad un’incredibile incertezza, avremo momenti in cui l’agitazione farà da padrona. Ci troveremo a rimettere puntualmente in discussione le nostre capacità e la nostra motivazione.
Saremo indotti ad interrogarci sui nostri attaccamenti, sulle nostre avversioni, sulle nostre abitudini più consolidate. Impotenza ed insicurezza diventeranno i nostri compagni abituali.
Confrontarci con la perdita ci riporterà alla fragilità della nostra stessa vita. E’ un dolore che può straziare e spalancare il cuore, ma è proprio qui, nel cuore aperto, che si scopre cosa può essere veramente d’aiuto.

La vita: precaria e preziosa

La morte è insita nella vita di tutte le cose. Ecco perché si può dire che una vita che non abbraccia la morte è una vita dimezzata.
La morte ci mette di fronte senza mezzi termini all’innegabile verità dell’impermanenza: tutto viene e va, ogni pensiero, ogni atto d’amore, ogni vita.
Prendiamo atto di non essere esenti da questo mutamento continuo.
Vedendo la natura transitoria, effimera, di tutti gli oggetti, di tutti i rapporti, di tutte le esperienze, comprendiamo che i nostri sforzi per impedire che le cose cambino o per raggiungere una condizione di duratura e definitiva soddisfazione sono, in ultima analisi, fonte di interminabili sofferenze. Questo è il motivo per cui tutte le tradizioni spirituali ci ricordano di considerare la morte come consigliera. L’evocarla getta luce sulle profonde verità dell’esistenza e aiuta a scoprire le vere cause della nostra sofferenza.
Dimenticare la morte è dare la vita per scontata. Se invece siamo disposti a toccare con mano il suo carattere precario, ci accorgiamo di quanto la vita sia preziosa e questo rimette tutto in prospettiva, incoraggiandoci a vivere pienamente ogni attimo. Non abbiamo più tempo da sprecare, ci prendiamo un tantino meno sul serio, lasciamo andare più facilmente, nei rapporti con gli altri c’è più posto per la gentilezza.

Cosa fare?

Non c’è bisogno di essere Madre Teresa o una persona speciale per essere una presenza benefica.
Per essere d’aiuto a qualcuno è però necessario includere noi stessi nell’equazione, è un lavoro intimo. Non è possibile servire l’altro restando a distanza. E’ dall’esplorazione della nostra sofferenza personale e dalla nostra consapevolezza che deriva la capacità di essere veramente d’aiuto.
E’ questo che ci permette di entrare in contatto con il dolore di un altro essere umano con compassione, invece che con paura o pietà.
Lo sforzo di proteggere l’immagine che abbiamo di noi può creare una barriera , farci perder il contatto con l’informazione o l’esperienza che potrebbe rivelarsi preziosa in una determinata situazione.
Per poter trovare un punto di incontro con l’altro dobbiamo attingere alla nostra forza e alla nostra impotenza, alle nostre ferite e alla nostra gioia. Tutto è chiamato a partecipare, perfino gli aspetti della nostra vita che detestiamo possono essere messi al servizio della pienezza. La familiarità con la nostra sofferenza personale ci permette di creare un ponte empatico con l’altro.

Il momento presente

Ricordiamo che aspettando il momento della morte, si perdono tanti momenti della vita. Nell’attesa perdiamo di vista quello che il presente ha da offrirci. E’ importante portare tutta l’attenzione al momento presente.
La capacità di essere realmente di aiuto agli altri è proporzionale alla capacità di vivere il presente come qualcosa di sempre nuovo. Quando non sappiamo, dobbiamo restare quanto più possibile aderenti all’esperienza. Dobbiamo lasciare che le nostre azioni scaturiscano dalla situazione in cui ci troviamo. Nel rapporto con la persona che sta morendo è come entrare in una grotta buia senza una torcia: cerchiamo di restare aperti, senza preconcetti, procedendo a tentoni, passo dopo passo, attimo dopo attimo, ricettivi, flessibili, osservando attentamente i mutevoli bisogni dell’altro e al tempo stesso prestando ascolto alla nostra voce interiore, riconoscendo i nostri impulsi, fidandoci del nostro intuito.

Autore

Elisabetta Marra

Elisabetta Marra

Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in Terapia psicosintetica, si occupa dei disturbi d'ansia, attacchi di panico, disturbi dell'umore, disagio esistenziale, lutto, autostima.

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