“All’epoca del Buddha sono già praticate diverse forme di meditazione, ma sono tutte tecniche che si basano soltanto sulla concentrazione. Gautama prima del Risveglio le padroneggia tutte, ma non è comunque pienamente soddisfatto.
Va benissimo fissare la mente su un singolo elemento: un suono (come un mantra), una immagine (la fiamma di una candela), un’emozione (amore o compassione), un’idea. Ciò conferisce forza alla mente, crea una sensazione di stabilità, pace e tranquillità, un senso di quello che Freud prese a chiamare ‘sentimento oceanico’.
Se può risultare rilassante, però non libera la mente dai traumi che l’hanno condizionata.
Il Buddha vuole qualcosa di più. La meditazione che gli risulta più congeniale è la consapevolezza attimo dopo attimo di ciò che accade nei diversi momenti della percezione.
Ciò non significa fissare la mente su un oggetto solo, ma osservare la mente in azione da una prospettiva neutrale.
(…) Nella pratica della mindfulness (meditazione vipassana) avviene lo spostamento del centro di gravità dalla mente pensante a un oggetto neutrale come il respiro.
(…) Guardare il respiro vi insegna a guardare la mente (anche le emozioni e le sensazioni), a osservare il flusso invece di reagire ad esso.
(…) Non cercate di afferrare ciò che è piacevole o di respingere ciò che è sgradevole ma prestate uguale attenzione a tutto quello che c’è da osservare.
All’inizio è difficile ma diventa molto più facile con la pratica. All’inizio si impara a spostare l’attenzione sull’oggetto neutrale (il respiro), poi a rilassarsi in uno stato di coscienza che non opera scelta, invece di mantenere sempre il controllo”.
(Mark Epstein, “La lezione della Serenità“, pag 110-111-112)
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