“L’abbandono-accettazione non è un aspetto tra gli altri del cammino spirituale, ma ne è, piuttosto, il cuore. Nelle parole di san Francesco di Sales: l’abbandono è la virtù delle virtù.
Alla non accettazione di sé si accompagna inesorabilmente la non accettazione degli altri.
L’accettazione, la via rasserenante del sì deve estendersi capillarmente a tutta la nostra vita. Ma questo processo rigenerativo non può aver luogo senza che, anzitutto, si instauri una seria amicizia per noi stessi, in luogo dell’inimicizia e della distruttività. Inimicizia e distruttività che, si badi bene, sono anche il nucleo di atteggiamenti apparentemente volti alla cura di sé, quali l’orgoglio o il narcisismo.
La natura profonda, intrinsecamente luminosa, della mente-cuore è offuscata dalle afflizioni dell’attaccamento-avversione-ignoranza.
La chiusura o la contrazione del cuore è la contrazione contro ciò che è spiacevole ed è la contrazione intorno a ciò che è piacevole. Se vogliamo, poi, il comune denominatore di avversione e di attaccamento è la paura, paura di incontrare lo spiacevole (avversione) e paura di perdere il piacevole (attaccamento). Ora l’opera della meditazione di consapevolezza è, né più né meno, l’apertura del cuore, allevare un’attenzione non giudicante.
Quanto più entriamo in contatto – mercé la consapevolezza – con la contrazione, tanto più cominciamo ad aprirci. Dunque: più entriamo in contatto con la non-accettazione o paura e sentiamo il suo effetto tagliente e divisivo, più ci rivolgiamo fiduciosi verso l’accettazione e verso il suo spirito unitivo.
Dice un grande maestro cristiano dell’abbandono, il Padre Jean Pierre de Caussade: «La pratica di accettare a ogni istante lo stato presente può, da sola, mantenerci sempre nella pace del cuore e farci progredire molto senza ansietà, turbamento e inquietudine».
Nel buddhismo un’accettazione matura si chiama equanimità.
Quanto più apprendiamo l’arte dell’accettazione, tanto più qualcosa cresce in noi: ci rendiamo conto che l’accettazione ci dona la ricchezza di una pace più salda di quella finora conosciuta. Una pace che porta con sé apprezzamento (invece di attaccamento) per ciò che è piacevole e rispetto per ciò che è spiacevole invece che avversione e paura.
Oltre il vasto mare della sofferenza e dell’ignoranza, c’è altro e questo ‘altro’ è già qui, in noi, nel mondo. L”altro’ impaziente che si possa giungere a una «Condizione di semplicità assoluta / Che costa non meno di ogni cosa. / E tutto sarà bene / E ogni sorta di cose sarà bene» (T.S. Eliot).
La facilità alla gratitudine è il polo opposto al dare tutto per scontato, che è una forma di indurimento, una forma di chiusura, a volte penosamente cronica. La facilità alla gratitudine è il contrario del sentirsi dolorosamente in credito, di sentire spesso – o sempre e comunque – di non essere abbastanza, di non avere abbastanza, di non ricevere abbastanza: grandi sofferenze, che la pratica ci aiuta progressivamente a comprendere e a sciogliere. La consapevolezza è una grande compagna della gratitudine, la consapevolezza ci fa notare con grande tranquillità tutto quello che riceviamo, ce lo fa scoprire con naturalezza.
Va crescendo la naturale prontezza alla gratitudine per piccole, piccolissime cose. Ma la gratitudine non è piccola: l’occasione è piccola per i criteri convenzionali, un saluto, una telefonata, un incontro, l’improvvisa apparizione di un bosco dopo una curva. La prontezza alla gratitudine. La capacità di meravigliarsi e dire grazie. Grazie, grazia, gratitudine”
Tratto dal libro “L’intelligenza spirituale” di Corrado Pensa (pp. 154-164, 165-166).
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