Malessere

Patologismo: ha un senso parlarne?

Patologismo, malattia, medicina e psicologiaIl patologismo domina ancora in modo abbastanza incontrastato nella medicina ufficiale, nonché in ambito psicologico.

Viene rivolta l’attenzione anzitutto alla ricerca dei sintomi ed alla loro valutazione quantitativa per mezzo di innumerevoli analisi ed esami. Si passa, poi, alla determinazione della diagnosi, cioè a dare un nome alla malattia. Infine si procede a “combattere” la malattia usando spesso dei grossi calibri medicamentosi, senza preoccuparsi abbastanza dei danni che possono recare ai tessuti e agli organi sani.
Fortunatamente è sorta anche nel campo della medicina ufficiale, una giusta reazione contro tali eccessi e vengono pubblicati articoli e libri che parlano apertamente di iatrosi, cioè di disturbi e talora malattie prodotti dalle medicine.

 

Relatività del termine “malattia”

Un passo nella giusta direzione è stato fatto da alcuni medici dotati di senso umano e di giusto relativismo i quali hanno affermato che, in realtà, non ci sono malattie, ma malati, in ognuno dei quali lo stesso stato morboso assume caratteri e ha decorsi diversi.
Il passo ulteriore e decisivo, che può sembrare rivoluzionario, è quello di partire dallo stato di salute, di considerare l’uomo come essere fondamentalmente sano, nel quale qualche organo è più o meno momentaneamente leso o mal funzionante, ma in cui le forze biologiche tendono a ristabilire l’armonia, lo stato di salute. Allora molti sintomi non vengono più considerati come espressione diretta della malattia, ma come “reazioni di difesa” della parte sana dell’organismo contro gli agenti morbosi. Un esempio tipico di tali reazioni difensive è la febbre, perciò è spesso errato, anzi dannoso, combatterla con medicine antifebbrili.
A questo “patologismo” della medicina ufficiale si è contrapposta una reazione in senso “naturistico” da parte di alcuni medici e di molti non medici. Questa giusta reazione purtroppo, non di rado, è eccessiva e talvolta arriva al fanatismo. Non si può e non si deve scartare tutto ciò che di buono vi è nella terapia ufficiale che spesso ha innegabili successi e salva molte vite. Un esempio, in tal senso, è costituito dagli antibiotici: il loro uso opportuno e moderato salva dei malati, ma il loro abuso può essere molto nocivo.

 

Cosa dice la psicosintesi in merito?

La corrente psicosintetica afferma che non esiste questo o quello, ma esiste questo e quello. Non vi sono opposizioni assolute, vi sono contrapposizioni, che possono essere unite in una sintesi superiore. Volta per volta bisognerebbe trovare il giusto contemperamento, la giusta integrazione, la sintesi di ciò che sembra opposto ed è invece complementare.
Tutto ciò è molto vero nel campo dei disturbi neuropsichici e di quelli fisici di origine psichica (disturbi psicosomatici) dove l’etichetta diagnostica ha spesso un’importanza relativa. Ci sono combinazioni di sintomi che non si lasciano incasellare nei “quadri” descritti nei trattati di psicopatologia; anche qui vi sono “costruzioni difensive” erette dalla psiche del malato che devono essere riconosciute e non demolite finché non si sappia sostituirle con altri e migliori mezzi. Talvolta, anche nella psicoterapia si insiste sulla “caccia ai sintomi” e si trascura quello che di sano e talvolta superiore vi è nel malato.
La psicosintesi considera l’individuo sano, unico ed irripetibile e la “malattia” insorge solitamente quando il soggetto si allontana dal proprio “”, quando “tradisce” se stesso (ovviamente per vissuti, esperienze e motivazioni diverse). Lo scopo fondamentale dell’uomo è quello di “essere se stesso”, cioè di esserci in modo autentico e totale, di realizzare il proprio Sè, di congiungersi con la propria essenza o anima.
Il Sè, in quanto essenza autentica e profonda dell’uomo, in quanto “esserci” cosciente e vitale, pare pertanto costituire l’unico e valido punto di riferimento per l’esistenza umana, orientamento e centro unificatore, meta evolutiva nel tempo e punto di sintesi e coesione nello spazio.
L’uomo non può vivere senza anima, in quanto l’anima è lui stesso, per cui quando perde l’orientamento e il contatto con essa, si smarrisce, si confonde e si ammala.
I motivi possono essere i più disparati, ma la cura deve essere innanzitutto una cura di risveglio dell’anima, nel senso di un recupero, una restituzione o un ritrovamento di ciò che era perduto, o comunque assente. La patologia esistenziale può essere considerata come una situazione “fuori posto”, nella quale elementi estranei si insediano in un vuoto o in una mancanza, che altro non è che l’assenza o l’incompletezza dell’anima.

 

Autore

Elisabetta Marra

Elisabetta Marra

Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in Terapia psicosintetica, si occupa dei disturbi d'ansia, attacchi di panico, disturbi dell'umore, disagio esistenziale, lutto, autostima.

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